Questa sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese

           
     

  

     
Italian Folklore Index page Home page
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
<< Parte seconda                                                                                               

 

Anche in giugno ricorreva il rito noto presso di noi come “u jovi i l’artaretti”, che  altro non era se non l’ottava della festa del Corpus Domini. Esso cadeva, appunto, in prossimità dell’estate, ma con data mobile, perché, come altre solennità, dipendeva dalla luna di marzo. Infatti dal primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera si fissa, ancora oggi, il Venerdì Santo e di conseguenza il giorno per la Domenica di Pasqua, l’Ascensione, la Domenica di Pentecoste, il Giovedì (oggi sostituito dalla domenica) del Corpus Domini, quindi l’intero ottavario. Tale ricorrenza era un giorno di particolare fermento per tutti i fedeli di Caulonia.

La processione si muoveva nel tardo pomeriggio dalla Chiesa del S.S. Rosario.


Chiesa del S.S. Rosario


Processione del Corpus Domini

Numerosi erano i fratelli dell’Arciconfraternita che vi partecipavano, ad essi si univano “i virginedi”, le ragazze che da poco si erano accostate per la prima volta al sacramento della Comunione e per tale motivo indossavano i loro abiti di veli e di candide organze.
Le giovani adolescenti tenevano un grazioso canestro con dentro tanti petali di fiori con cui, a larghe mani, provvedevano a cospargere tutta la strada. Tutto il clero, indossando i piviali più preziosi intessuti con fili d’oro, si alternava a portare l’Ostensorio con il Santissimo.

Quest’ultimo procedeva solennemente sotto l’ombrello e il palio sorretti sempre da persona di cosiddetta alta dignità morale e sociale; ma erano i drappi più fini, le sete più preziose, i damaschi più elaborati che durante quel giorno facevano da padrone in tutte le vie del nostro centro storico. Ogni balcone, spalancato, sfoggiava il miglior tessuto per onorare il passaggio dell’Ostia Consacrata.

La tradizione spingeva tutta la nostra gente ad allestire nei vari slarghi, in ogni “ruga”, in tutti i punti più scenografici di Caulonia per culminare in piazza Mese, bellissimi “altaretti” con le trapunte più belle, i lini più pregiati e i copriletto dai colori vivaci, che addobbavano le improvvisate cappelle a cielo aperto.


Arula

Tale pratica religiosa troverebbe analogie con riti delle nostre più antiche civiltà. Si sa che presso gli abitanti della Kaulonìa greca diffuso era l’uso dell’arula, altarino in terracotta. Infatti presso i nostri antenati le piccole are erano destinate alle cerimonie private, familiari, di esigui gruppi e su esse i cauloniati facevano le loro pratiche di culto. Le arule avevano una forma parallelepipeda e sul loro piano erano deposte le offerte votive o venivano versate le libagioni ed erano istoriate a matrice sulla faccia principale, più spesso con animali in lotta.

In tempi più vicini a noi, e ancora oggi lo è per qualcuno, era diffusa la consuetudine di innalzare piccole are con su la Madonnina di maggio, la statuina di Sant’Antonio o quella del Sacro Cuore di Gesù (quest’ultima per tutto il periodo di giugno).

Davanti a questi “altarini”, a sera, i componenti la famiglia, se non tutte le vicine di casa, si stringevano nella recita del Santo Rosario. Ma era nel giovedì degli altaretti che tale tipo di culto, privato e nel contempo pubblico, trovava la sua massima espressione. Fin dal primo pomeriggio tutte le nostre donne facevano a gara a tirare fuori dai vari settimini o meglio dalla cassa della nonna il copriletto meglio tessuto. Con fiero orgoglio ogni donna metteva in mostra i propri lavori, perché anche presso le giovani di Caulonia era costumanza tessere al telaio i lini più delicati con il cotone più resistente. Ogni ragazza da marito, chi più chi meno, aveva conosciuto quest’arte veramente antica. Fin dagli anni della sua adolescenza aveva fatto il suo apprendistato presso qualche brava “majistra i tilaru”, e  accompagnando sovente il lavoro con versi suggestivi:

“Giuvani bellu, galanti e cortisi
chi ti promisi ti vorrai dunari.
Eu ti promisi nu jancu muccaturi
e cu fili d’oru l’aju a riccamari.
Tuttu ‘ntornu ‘nci mentu l’amuri
E’ nta lu menzu l’aquila riali”

Pare che anche presso le nostre giovani donne ci fosse la consuetudine di ricevere, da parte dei loro promessi sposi, un dono dall’alto valore simbolico: il “fuso” e la “navetta”. Probabilmente, con tale gesto, il giovane pretendente voleva fin da subito chiarire il ruolo futuro della giovane prescelta, che era legato alla procreazione e ai lavori prettamente femminili, quale, appunto, quello del tessere.


Donna che fila la lana con il "fuso"

A tal proposito eloquenti sono l’espressione “vaji comu na novetta” e la filastrocca:

“Donna fila, fila la lana
e filala ‘bbona
e si ‘nno ogni gruppu
o pettinu arriva

Con esse si evidenzia oltre alla solerzia verso tutto il mondo del lavoro, un monito verso ogni moglie a svolgere il proprio ruolo con cura e diligenza. Sempre al “fuso” era legata la breve tiritera, che i nostri ragazzi ripetevano a mo’ di cantilena, spesso senza cogliere il suo significato più triviale:

“quando mammita cala u fusu
lavi apertu o lavi chjiusu ?
e ’ppe non perdiri l’usu
menzu apertu e menzu chjiusu!”

Si! quelli erano anni in cui la giovane donna attendeva a tessere la propria dote e numerosi erano i “ tilari” che facevano bella mostra di se nei vari scantinati:

“A donna tessi, tessi
mina na ‘bbotta e ‘ssi ‘nda nesci
e ‘ssi a tila ‘on  vaji  ‘bbona
è mancanza da pedalora!”


Il telaio era un attrezzo semplice e complesso nel contempo, in gran parte costruito in legno duro, di preferenza in noce, e soprattutto per farlo funzionare bene si doveva usare con la massima precisione, perché “u tilaru ‘ndavi u vaji a filu i capidu”.


Tilaru

Esso era una sorta di grande gabbia formata da diversi assi in legno, “stamigni” e  “sdanghe”. “I stamigni” si sviluppavano in linea orizzontale ed erano sorretti dalle “sdanghe”, assi in posizione verticale. I primi, che stavano in alto sorreggevano “a càssita”, su cui veniva a trovarsi il pettine e l’asse, sul quale insistevano, sorretti da   “tumbaredi” e “canne”, “i lizzi” (licci), elementi quest’ultimi che servivano ad alzare e abbassare alternativamente i fili dell’ordito. Gli altri componenti di questa macchina fantastica erano: “a sedalora”, il sedile, a dire il vero, non molto comodo anche perché così si favoriva la posizione tesa delle gambe della tessitrice; la ruota dentellata che faceva girare il subiello, l’asse cilindrico su cui si avvolgeva la tela; e la “pedalora”, tastiera, di una certa dimensione, azionata con i piedi e collegata ai “lizzi”.

Altrettanto complessa e piuttosto faticosa si presentava l’intera fase della tessitura, che si divideva in due momenti: il primo vedeva la preparazione del filato dell’ordito e della trama che attraverso la “cannalora”, “u matassaru”, “a lurditura” e “u manganedu” trovava i momenti più salienti, mentre il secondo vedeva come protagonista il telaio. Si riempivano i “cannoli” (lunghi rocchetti di canna di circa venticinque centimetri) con filato di cotone o lino, quindi si collocavano i filati, così avvolti, nei vari assi di ferro della “cannalora”, attrezzo atto a contenere tutti i rocchetti e a farli ruotare contemporaneamente. La “majistra i lurditura” (quest’ultima vera esperta in tutte le fasi di questa nobilissima arte) prendeva nelle sue mani la cima di ogni filato e dopo averla annodata la faceva scorrere, dando inizio alla fase della “lurditura”. Essa consisteva nel far passare tutti i filati attraverso percorsi obbligati, determinati da serie simmetriche di enormi chiodi infissi nella parete. L’insieme di tutti i fili andava da un chiodo ad un altro a ‘mo di lunga serpentina. Una volta collocato tutto il filato, sempre l’abile maestra lo raccoglieva per ricavare un enorme gomitolo. Infine si ricorreva al telaio con la fase conosciuta come “a sugghjitura” (la collocazione dell’ordito sul telaio). L’ordito con grande perizia veniva srotolato dal grosso gomitolo e si avvolgeva al “sugghjiu” (subbio); quindi ben teso, passando attraverso i “lizzi” e i denti del pettine della “càssita” raggiungeva il “sugghjiu” più in basso (subiello). Quest’ultimo aveva il compito di avvolgere la tela (prodotta dall’intreccio dell’ordito con la trama). La trama era il filato che attraversava l’ordito in senso orizzontale grazie alla “novetta” (navetta) con dentro la spoletta con il filo raccolto. Meno faticosa e, a dire il vero, non molto difficile era l’operazione atta a ricavare il filato della trama, che poteva essere di lino, di cotone e, se si voleva uno più prezioso, di seta. Il filato con il “matassaro”, (canna lunga circa settanta centimetri e con due pioli sporgenti fuori) si trasformava in matassa, che veniva collocata sul “nimuledu” (arcolaio).


Tilaru

Il capo del suo filo era avvolto in una spoletta di circa dieci centimetri, da noi definita “canneda”, perché si ricavava da canne piuttosto esili. La nostra spoletta veniva inserita ad un perno del “manganedu” (aspo, arnese formato da una grande ruota di legno che serviva ad incannare il filo sopra i cannelli). A questo punto tutto era pronto a dare inizio al movimento di oscillazione che portava il pettine a colpire sonoramente una verga e il filato avvolto al subiello, dando così inizio alla tessitura. Si poneva molta attenzione a far si che il colpo fosse secco e deciso, onde evitare imperfezioni della tela, il cosiddetto “corno”. Per scansare tale inconveniente si usava collocare alle sue estremità due pesi, atti a mantenere il tessuto ben tirato. Già all’inizio, i risultati ottenuti dal lavoro delle nostre operose tessitrici apparivano straordinari. Di solito a marzo iniziava la stagione propizia per tale occupazione, perché con l’avvento della primavera la luce del giorno si prolungava sensibilmente, consentendo di andare avanti fino a tutto giugno; quando il caldo rendeva difficile una tale fatica.

Per giugno i nuovi tessuti erano già pronti ad essere messi in bella vista al passaggio del corteo del Corpus Domini.

Varie erano le combinazioni che si ricavavano dall’intreccio dei filati e ogni disegno aveva un proprio nome: “spina i pisci”, una sorta di linea spezzata; “principessina”, che alternava una parte di tela a fondo unito ad un’altra lavorata a scacchiera; “occhi i granunchjiu”, consistenti in due rombi, uno interno all’altro e lavorato a rilievo; “schjioccheri”, destinato per le tovaglie da tavola; “quadruni” e “a stella” entrambi molto adatti per le coperte; “u piparedu”, disegni destinati al tovagliato in genere; “a ’rrajia”, “a ‘ffibbia”; “u mattuni”; “a milanesi”; “seggia sgudata” assimilabile ad una greca stilizzata; “u cielu stidatu”; un tessuto veramente bello era, inoltre, “a rosa ‘ncurunata”, il cui effetto era quello di un fiore sempre stilizzato ed incorniciato da linee geometriche; ed infine, un’ intreccio che richiedeva una grande abilità, frutto di alta esperienza, era conosciuto con il nome “undici lizzi”, che si lavorava con undici “lizzi” nei fili d’ordito e di conseguenza, con un egual numero di pedalini della “pedalora”.


L’effetto che ne derivava era veramente straordinario, infatti sulla tela si vedeva sbocciare un meraviglioso fiore a stella di Natale.
Disegni, tutti, che nelle forme geometriche, o meglio nella composizione di linee intricate, trovavano le loro matrici.

Da una attenta osservazione di tutti questi filati abilmente intessuti emerge tutta la nostra cultura figurativa, cosiddetta delle arti minori. Cultura, questa, più che millenaria che dal mondo greco (geometrico) traeva origine e che nell’età bizantina (motivi vegetali e zoomorfi), nelle civiltà islamiche (arabeschi) e ancora in quelle iberiche (estofados) toccava i punti più alti.


Particolare del Cristo (Affresco bizantino)


Sarcofago del mausoleo Carafa (Chiesa Matrice)


Altare minore della Chiesa Matrice


Organo della Chiesa Matrice

Tanti disegni fioriti dai nostri telai trovavano i loro spunti ispiratori e nel drappo chiaro, solcato da bende decorate a motivi vegetali che si adagia suntuosamente sul trono su cui si staglia la ieratica figura del Cristo Benedicente dell’affresco bizantino di San Zaccaria; e nelle raffinate decorazioni dei tre pannelli sovrastanti il sarcofago del mausoleo Carafa della Chiesa Matrice, che potrebbero fungere da veri prototipi per tanti disegni, che rendono veramente belle e affascinanti le nostre coperte e le eleganti tovaglie di lino; e nei motivi floreali del leggiadro cuscino su cui poggia la testa della giovane donna, scolpita a rilievo sul coperchio di un sarcofago del sedicesimo secolo e conservato nella Chiesa del S.S. Rosario, in cui possiamo cogliere i tanti fiorellini stilizzati delle trapunte delle nostre nonne; e nell’elaborata composizione di marmi mischi adornanti la balaustra dell’altare maggiore della Chiesa del Carmine o il paliotto del settecentesco altare conservato in Santa Maria dei Minniti, che probabilmente avranno contribuito a raffinare ulteriormente i gusti di tante abili maestre di telaio; ed infine nelle ghirlande di fiori di squisito gusto rococò, che ancora ornano la cimasa e le lesene lignee dell’organo del 1762, ora in deplorevole stato di abbandono nella Chiesa Matrice, che sicuramente avranno deliziato gli occhi di tante spose, tanto da indurle a riproporre simili delicatezze su federe, tovaglioli e vari capi di biancheria per toletta; lavorati tutti al telaio con il fresco lino.

Si! anche se è vero che tutti questi nostri manufatti tessili vanno classificati come prodotti di un’arte minore, o meglio di arti applicate, non bisogna sottovalutare la qualità altamente eccellente dei risultati finali.

Quando giugno volgeva ormai al termine, un altro rito riempiva di se l’intera sua ultima decade. Questo era conosciuto come “i hjiuri i San Gianni”, ovvero “u cumparatu di hjiuri”. Esso consisteva in un originale rapporto di “commarato” tra ragazze nubili. Negli ultimi tempi tale rito è caduto in disuso tanto che pare che sia scomparso. Di tale cerimonia presso le giovanissime generazioni rimangono tracce molto scarse; quindi si avverte sempre più la necessità di conservare la memoria con una dettagliata descrizione. Teresa Giamba, con un lavoro non pubblicato, ne fa una particolare esposizione descrivendo il rito seguito presso la frazione San Nicola di Caulonia, il cui protocollo sicuramente non differiva da quello seguito da tutta la gente di Caulonia. In esso così si legge: «pratica, quella di hjiuri i San Gianni, ormai in disuso che fino a circa trent’anni fa era largamente diffusa tra le ragazze e scaturiva in genere da un moto di simpatia. Era l’occasione per creare, rinsaldare rapporti affettivi di amicizia e di rispetto reciproco; cosa d’altra parte pressoché impossibile nei normali rapporti quotidiani. La cerimonialità garantiva la durata nel tempo del rapporto; spesso il “sangiovanni” veniva ulteriormente consolidato con il tenere a battesimo gli eventuali rispettivi figli.


Donne che filano la lana con il "fuso"

La ritualità del “sangiovanni dei fiori” aveva durata triennale e si svolgeva nella maniera seguente: La “commare” che prendeva l’iniziativa, il giorno di San Giovanni (24 giugno), previo avviso per conoscere la disponibilità dell’altra contraente e della rispettiva famiglia, si recava in visita con tutta (la rispettiva) famiglia (per l’occasione la comare ospitante preparava un ricco banchetto) presso la comare prescelta portando un fiore (simbolo del rapporto che si creava) fatto a mano con carta crespa somigliante a quello che era nelle mani della statua di San Giovanni. In un cestino addobbato con petali di fiori si portavano i regali (indumenti in genere). All’arrivo si recitava la seguente formula:
 Iª comare: “Buongiorno cummari”
IIª comare: Buongiorno cummari

 Iª comare: “Pigghjiativi sti hjiuri
                a nomi di San Gianni
                e tenitili cari.
                Si vui non l’aggraditi
                Signu è ca non m’amati”

IIª comare: “Eu cummari mi li pigghjiu
                 e mi l’abbrazzu
                 e su pe ‘mmia tantu aggraditi"

Il giorno di San Pietro e Paolo (29 giugno) veniva restituita la visita con la stessa ritualità.
Tutto questo veniva ripetuto per tre anni; allo scadere dei tre anni i fiori di carta si portavano in chiesa e venivano deposti ai piedi della statua di San Giovanni, il giorno della sua festa.

Rifiutare un “sangiovanni dei fiori”, oltre che una grave mancanza di rispetto, un’offesa, veniva considerato peccato. Questo rapporto anche quando non veniva rafforzato da ulteriori comparati durava nel tempo anche tra le generazioni successive.

Nella frazione di San Nicola, fino a circa quarant’anni fa, la festa di San Giovanni era tenuta in grande considerazione; inoltre nella cultura popolare locale era considerata la festa dei giovani. La statua veniva portata in processione da giovanotti particolarmente curati “addirizzati” perché lo stuolo che seguiva il simulacro era costituito soprattutto da ragazzi. Spesso in quella circostanza si puntava l’occhio sull’eventuale fidanzata. Nell’occasione della processione le comari che avevano contratto il “sangiovanni dei fiori” seguivano il corteo affiancate. Il “sangiovanni dei fiori” era spesso il veicolo lecito e socialmente accettato per avvicinare una famiglia dove c’era un giovanotto che poteva rappresentare un buon partito per un eventuale matrimonio.

La sera del 23 di giugno, vigilia della festa di San Giovanni, molti, in genere ragazze, per sapere se si sarebbero presto fidanzate, bruciavano un fiore di cardo, da noi conosciuto con il nome “u hjiuri i sangianni”. Se all’alba del 24 il fiore era di nuovo fresco, voleva dire che il loro desiderio si sarebbe avverato». Anche il “commaratu di hjiuri”, la cerimonia che vedeva protagoniste le nostre giovani donne, si consumava, arrivando in tal modo alla fine di giugno, quando in altre zone d’Italia a sera si susseguivano le luminarie. Le giornate iniziavano ad accorciarsi e il caldo estivo si faceva sentire sempre più e con esso si apriva una nuova stagione e quindi un’altra storia…

 


Un sentito ringraziamento a:
Vincenzo Ammendolia e
Ideal Foto per le splendide foto forniteci.

Un ringraziamento cordiale al Prof. Gustavo Cannizzaro che ha scelto il nostro sito web
per la prima pubblicazione di questo suo saggio

Il sacro e il profano nel giugno cauloniese
di Gustavo Cannizzaro

www.caulonia2000.it - Maggio 2001


Top


Layout: Fabio Di M.


Copyright © 2000 Caulonia 2000 per continuare a cambiare - Tutti i diritti riservati


<< Parte seconda