Questa sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




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Il latte, raccolto nei recipienti appositi, veniva filtrato attraverso rametti di "filici" (felce) per mondarlo dalle impurità e versarlo quindi nello "stagnatu" (caldaia) messo su della brace accesa.

Si dava così inizio al secondo momento di questo delicato lavoro. Se la felce non fosse stata disponibile, per depurare il bianco liquido si utilizzava "a scamughjara" (arboscello della macchia mediterranea) o un telo dall'ordito largo, "tila lasca".
Si faceva attenzione a non andare oltre ad una temperatura tiepida in modo che il latte si potesse lavorare. Solo a questo punto si aggiungeva il caglio, una sostanza acida estratta dall'abomàso dì un capretto poppante e usata come coagulante del latte. A tal fine, ogni buon massaro aveva già provveduto ad ingozzare con latte materno il lattonzolo da sacrificare, per poi ammazzarlo e privarlo dello stomaco. Il caglio, una volta estratto, veniva appeso per farlo asciugare mediante un processo di affumicatura, che consentiva che rimanesse asciutto all'esterno, mentre nel suo interno si creava una sorta di crema pastosa dal colore marrone chiaro.
Fatto ciò, tutto il caglio veniva collocato in un contenitore di vetro o una terrina smaltata per poi poterlo lavorare con olio, evitando, così, la sua essiccazione. Il suo trattamento richiedeva una certa perizia da parte di ogni massaro, perché bisognava di volta in volta controllarlo e aggiungere, se fosse stato necessario, ancora altro latte, o, ancora meglio, del "culostru" (colostro) di qualche capra da poco liberata dal suo feto. Infine si mescolava del sale, ma si stava attenti a dare una giusta dose altrimenti il prodotto finito tendeva ad essere salato e rischiava di produrre vermi.

Solo a questo punto un cucchiaio di caglio veniva messo all'interno di una pezzuola per poi immergerla nel latte contenuto nello stagnato. Si spremeva il tutto e lo si strofinava sul palmo della mano in modo che ogni parte andasse a finire nel latte da coagulare. Quando il tutto veniva a trovarsi nella caldaia si faceva uso della "rocca di canna", un'asta con alla punta un rigonfiamento a mo' di grosso limone, formato da doghette, pur'esse di canna, infisse in buchi ricavati, come piccoli fori di uno zufolo, sulla stessa canna. Con la "rocca" si girava la sostanza coagulata sempre tenuta a tiepida temperatura. Il movimento rotatorio si eseguiva prima in un verso, quindi nell'altro. Il massaro facendo roteare la "rocca" cercava di tagliare tutta quella massa e alla fine eseguiva un grande segno di croce, come se con ciò si volesse chiedere l'augurio del cielo, invece in posti limitrofi al nostro centro si pronunciava una formula propiziatoria:

"A nomi i donna Cicca
o mi quagghja o mi 'mpisicchja"

Solo a questo punto si dava inizio ad una nuova fase, "la raccolta" e si immergevano ambo le mani nel latte coagulato e lentamente si procedeva da un lato, sospingendo il tutto verso l'interno, per poi raccogliere la pasta vischiosa, detta "tuma".

Quest'ultima veniva collocata nei "fascedi" (fascera) dove con le mani o meglio con la palma delle stesse veniva compressa in modo che l'intera pasta si potesse amalgamare e nel contempo espellesse il siero assumendo la forma propria del tipo di formaggio desiderato. Naturalmente ogni "massaro" provvedeva a ricavare le "fascede" di cui aveva bisogno, lavorando con le proprie mani il ramoscello filiforme del "juncaru" (giunco) scaldato nell'acqua, che cresceva un tempo lungo il corso delle nostre fiumare. Tutto era pronto per la stagionatura:
il formaggio veniva trattato con un intruglio a base di olio, aceto e pepe rosso triturato, possibilmente piccante, e lo si lasciava a riposo per meno di un mese, se era per mangiare per oltre tre mesi, se era per grattugiare. Messosi a posto con il formaggio, il lavoro non era finito perché bisognava fare la ricotta.

"Ciangi lu pecuraru quandu 'nghiela
Non ciangi quandu mina la cucchjara"

Si rimetteva sul fuoco debole lo "stagnatu" e, questa volta, si faceva roteare un bastone, "u mischiu", per raccogliere i residui, le bricioline di "tuma" non utilizzate per il formaggio, mentre nel liquido rimasto, detto "lacciata", si versava ancora del latte. Ora era "u mischiu" che nel liquido seguiva una traiettoria zigzagata sul fondo del contenitore fino a quando un nuovo miscuglio, la ricotta, non saliva in superficie.


Durante tale operazione, si stava attenti ad allungarlo con un po' d'acqua fredda, qualora il liquido avesse dato i primi segni di ebollizione. Una volta a galla si provvedeva con un grosso cucchiaio, a mò di mestolo, a raccogliere tutta la ricotta e a collocarla nelle "fascede". Quest'ultime, ricolme, venivano sistemate in un secchio di legno, "u rivaci", che, coperto da tovagliolo, appeso ad un bastone, "u judu", e poggiato sulle spalle, veniva portato per il paese al grido "Oh li ricotti". "U ricottaru" passava e tutte le nostre donne si affrettavano a comprare. Poiché nulla andava perduto, il liquido rimasto, "u seru", veniva messo nel trogolo, "u scifu", per essere ingurgitato dal maiale, del quale nessun "massaru" poteva privarsi.

Ma la produzione del formaggio non si limitava a quella che si faceva presso ogni ovile; spesso le necessità domestiche di tanta nostra gente assicuravano una certa quantità di tale prodotto per le strette esigenze familiari. Soprattutto nelle nostre campagne non era raro tenere, da parte di qualche donna, una, due capre al pascolo, da cui ricavare tanto aiuto alla pur grama alimentazione. Naturalmente in questa situazione la quantità giornaliera di latte non poteva essere sufficiente per ricavare i prodotti desiderati, quindi ci si aiutava l'un con l'altro, come una sorta di società di mutuo soccorso e così si otteneva in prestito la quantità mancante per poi restituirla quando l'altra ne aveva bisogno. Sì! Vita semplice e dura era quella, ma il reciproco aiuto, l'umana solidarietà erano elementi che caratterizzavano molto l'intera esistenza e tanta fame spingeva le nostre donne ad essere più industriose, più operose.

Sicuramente da tali esempi, da tali esperienze, il grande attore napoletano Raffaele Viviani traeva spunto quando affermava:

"La fame è quella scienza
che fa torcere le budella
e aguzzare le cervella".

Con ogni capra si instaurava un rapporto familiare e le nostre contadinelle avevano nei loro confronti atteggiamenti piuttosto bruschi. Spesso, anche presso di noi, tale animale veniva assimilato a creature infernali e soprattutto a tutti gli esseri duri e cocciuti:

"Est tostu comu 'na crapa"

Una ricca nomenclatura veniva utilizzata dai nostri nonni per identificare la diversa condizione dell'animale. Così essa veniva definita "minda" quando aveva le orecchie appena sviluppate, "corsa" se ne era completamente priva, mentre se le stesse orecchie fossero state ben sviluppate la capra era "martisa"; "zira" o "vacanti" se l'animale per un anno rimaneva sterile e poiché non proliferava, rimaneva privo di latte; "guda", quando era priva di corna, "stirpa", tutte le volte che l'animale in periodo di riposo non produceva latte; "sardignola" era il nome dato ad una bestia molto selvaggia (probabilmente importata dalla Sardegna, dove si pensava che vivesse allo stato brado) e destinata alla macellazione. Talvolta, quest'ultimo tipo di capra, essendo dotata di una bella "verina" (mammella), si dimostrava molto prolifera di latte, per cui non veniva uccisa e si tentava ogni cosa per renderla meno ribelle. "Vertulara" era l'animale con mammelle molto pronunciate e, infine, "pecurina" quando le mammelle erano poco sviluppate.

Iniziata la lavorazione di ogni latte, trascorsa la novena della Madonna, non si era ancora spento l'ultimo tizzone del gran falò della vigilia, quando già si annunciava il giorno di festa dell'otto dicembre consacrato all'Immacolata. Sempre sentito fu il culto da parte della gente di Caulonia verso la "Sine Macula". Per ben nove giorni all'alba e al vespro la campana annunciava l'inizio di funzioni religiose proprie di tale solennità. Se il dogma dell'Immacolata Concezione viene fissato il giorno otto di dicembre dell'anno 1854 dal Papa Pio IX con la bolla ponteficia "Ineffabilis", il culto verso la Madre di Dio, Creatura concepita senza peccato originale, risale ai primi secoli dell'era cristiana. In Caulonia alla Madonna Immacolata è consacrata non solo una delle due arciconfraternite,ma una delle sue più belle chiese e in essa la Divina Immagine viene rappresentata già sulla facciata esterna, dove viene affrescata in una nicchia soprastante il portale d'ingresso. All'interno della chiesa il centro della volta a botte è occupato da un grande dipinto ovale datato 1933 e firmato dall'artista napoletano G.M. Girosi raffigurante appunto la verità di fede su Maria Immacolata.

In esso l'insieme dei Vescovi sotto sontuosi piviali e all'interno di un luogo sacro, proclamano lo stato di purezza di Maria prostrandosi ai suoi piedi; l'Immacolata, di murilliana memoria, avvolta da azzurro manto, appare in tutta la sua luce in una gloria di angeli e sotto i nudi piedi il pianeta terra, il corno di luna e un ancora guizzante serpente. Ma sono due importanti statue, una in marmo di Carrara e un'altra in legno di quercia, a polarizzare ogni devozione.

La scultura marmorea, vero gioiello di arte rococò, si eleva con grande regalità sull'altare maggiore, divenendo il punto focale dell'unica navata, una volta entrati in chiesa. Subito appare all'occhio di ogni osservatore la grazia e l'armonia che nell'arte rococò conobbe i momenti migliori. Dall'evoluzione accademica del barocco deriva quel rococò che in terra di Francia seppe ulteriormente nobilitarsi per divenire degno persino della contemplazione dell'occhio del sovrano.

Ben presto un tale genere di operare trovò nella valva aperta di una conchiglia l'elemento caratterizzante e, appunto, dal francese "rocaille" (conchiglie) prese il nome. La nostra Madonnina ha sempre rappresentato la forma raffinata e preziosa di tale stile presso di noi e su di essa si racconta come per un lungo periodo fu tenuta nascosta ricoperta da paglia in una stalla per tenerla lontano dagli occhi rapaci di chi voleva privare di tanta bellezza tutta la nostra gente.
L'occultamento della statua rientra in uno degli innumerevoli episodi di cui parla il più noto storico d'arte calabrese, Alfonso Frangipane, quando scrive: "E' noto come e quando le vicende storiche di Calabria siano state avverse, dal medioevo a tutto il sec. XVIII, ed anche oltre, alla conservazione delle opere d'arte; diciamo di quelle risparmiate dai disastri tellurici frequentissimi e, purtroppo, così violenti da annientare edifici monumentali con il loro contenuto e città intere. Paragonabili, per effetti distruttori, a codesti disastri sono stati (dopo usurpazioni di regimi, incendi barbareschi e vandalismi locali innumerevoli) due avvenimenti tra la fine del sec. XVIII e i primi anni dell'ottocento: la istituzione della "Cassa Sacra" dovuta a Ferdinando IV di Borbone, e l'occupazione francese con le consecutive reazioni dal 1806 al 1820. Con la "Cassa Sacra" decretata nel 1784, il Re di Napoli avocava a sé, fra l'altro, i beni, le oreficerie, le gioie, tutto ciò che di ingente e di prezioso appartenesse a chiese, monasteri, cattedrali, facendo promettere dal suo Vicario e Visitatore Generale una restituzione mai più effettuata; mentre tanti tesori, di cui pure è rimasta qualche notizia storica dettagliata… venivano raccolti a Napoli, a disposizione della Corte, e, per le oreficerie, dei fonditori ed incettatori borbonici.

La "Giunta della Cassa Sacra" aveva ordini di lasciare alle chiese appena qualche arredo di nessun valore, per la necessità di culto. E si può supporre quanti documenti di arte medioevale e di storia regionale dovettero essere strappate alla Calabria. Solo qualche cimelio poté rimanere, nascosto chi sa come, al rigore di quell'Istituto, che, pur essendo destinato alla beneficenza collettiva, trascese in tutto il Mezzogiorno esercitando una totale e crudele spoliazione, distruggendo oggetti sacri cui erano legate tradizioni secolari e d'arte di istituzioni, fabbricerie, enti ecclesiastici. Dell'occupazione francese le memorie si tramandano tuttora nelle generazioni, con dolore e sdegno. Si narra come furono salvate alcune opere d'arte, statue, reliquari, paramenti, sovrattutto per zelo di religiosi e di popolo, con occultamenti nelle fosse tombali e sotto i pavimenti delle chiese, o murandole addirittura nelle nicchie o tra le muraglie. E ciò avveniva dopo una serie di sconvolgimenti tellurici culminanti nel famoso terremoto del 1783, che aveva arrecato danni immensi al patrimonio artistico e monumentale della Calabria".

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U sei i Nicola, l'ottu i Maria... U vinticincu lu bellu Misìa;
ovvero

La grande attesa per il Natale cauloniese.

di Gustavo Cannizzaro
www.caulonia2000.it - Marzo 2002



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