Questa sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




Parte seconda >>  

"Sant'Aloi porta la nova
allu sei Santu Nicola
all'ottu i Maria
allu tridici i Lucia
u vinticincu lu bellu Misìa":

La curiosa tiritera, canticchiata da tanti nostri bambini, apriva ogni anno la magica atmosfera del Natale. E così anche da noi, dopo la stagione dei morti, sempre pervasa da strana malinconia,e la breve estate di San Martino, non priva di una certa tenerezza, prendeva inizio l'allegro momento che nelle festività natalizie trovava la sua fase culminante. Ancora tutto questo periodo non era contaminato dall'odierno consumismo e tale ricorrenza improntata sulla semplicità e la serenità sapeva rimanere festa di pace e di carità. Questo amore di evidenziare il "ieri" con un velo di nostalgia non è retorico, né vuole affermare che il "tempo passato" fu la mitica età dell'oro, ma certamente si vuole pensare a quell'epoca spogliandola di ogni sorta di difficoltà.

Si sa che la vita di allora conosceva tanti grossi problemi, tante rinunce, tanti disagi; pertanto non si può dimenticare che essa fosse caratterizzata da una società chiusa e talvolta gretta. Molti dei nostri uomini vivevano ricorrendo ad ogni sorta di espediente e spesso si svolgeva un lavoro che consentiva la semplice sussistenza. In quegli anni a Napoli, come riferisce Paolo Catalano, si definiva con il termine "campata" il lavoro quotidiano di una persona o meglio l'arte di arrabattarsi e di accontentarsi, il servirsi di sotterfugi atti a "campare", "tirare avanti". Però bisogna aggiungere che anche quell'età seppe conoscere le sue gioie e tanti momenti di allegria.

Se i rigori dell'inverno si facevano sentire, tutto ciò favoriva una permanenza più lunga in casa. Ci si stringeva intorno al focolare, il più delle volte consistente in un braciere collocato in una "rota" di legno. Quest'ultima non era altro che "a rota du brasceri", una pedana di tavola grezza a forma circolare e forata nella sua parte centrale per accogliere il braciere o caldano. Il braciere il più delle volte era un recipiente di rame ben forgiato, talvolta un consunto bacile smaltato, ma anch'esso idoneo a tenere la brace accesa per riscaldare l'ambiente. Sempre sulla parte superiore della pedana, poggiante su tre - quattro piedi, vi erano dei forellini dove andavano a finire i piedini del "ferru du focu", una sorta di gabbia, appunto, in ferro. Essa serviva a difendere i bimbi dalle insidie del fuoco e nel contempo le nostre mamme la utilizzavano per adagiare sopra i panni umidi quando nelle giornate di scirocco non era possibile "lamprare", stendere, la roba bagnata "all'aria aperta".

Gli alari erano molto semplici: una palettina di ferro battuto, talvolta impreziosita da un manico di rame, spesso acquistata da una zingara di passaggio, e una lunga presa, una sorta di mollettone di ferro detta "pizzicalora". Sulla pedana tutti appoggiavano i piedi infreddoliti e intorno alle braci ardenti, "scarfandosi", si ascoltavano le storie più strane e i racconti più affascinanti; nel frattempo , talora, nella cenere calda si faceva cuocere qualche ovetto per i più piccini, delle castagne intaccate per evitare di farle saltare fuori e delle patate, che erano veramente ottime ad essere degustate sul posto una volta private della buccia abbrustolita.

Naturalmente non poteva mancare la classica "coppa d'arangu", una buccia di agrume messa sul fuoco a bruciare per far sentire la sua fragranza nella camera, attenuando così l'odore di carbone ancora "crudo". Periodo intenso e fitto di avvenimenti era quest'ultimo mese dell'anno. I nostri contadini osservavano e scrutavano ogni cosa perché un indizio era sufficiente a trarre tutte le previsioni. Così si stava attenti a come si presentava la giornata del 25 novembre, consacrata a Santa Caterina, per poter prevedere che tempo avrebbe fatto il giorno di Natale, la festività più importante dell'anno, da cui il detto:

"Comu Catarinija, accussì Natalija"

Il contadino, il buon massaro e ogni artigiano si muovevano sempre seguendo antichi rituali e non si intraprendeva alcun nuovo lavoro se il tutto non si presentava come i vecchi detti avevano codificato, e sicuramente in tutti questi gesti antichi si vedeva qualcosa di sacrale. Si aspettava con un certo timore il giorno del due dicembre, Santa Bibiana, perché se in quella data avesse piovuto, l'acqua si sarebbe protratta per un lungo periodo:

"Quando chjovi i Santa Bibiana
chjovi nu misi e na simana"

L'intera "… esistenza era scandita su un calendario tutto religioso che riusciva a garantire, tra carnevali, quaresime, pasque, natali, e processioni, giornate di festa o di penitenza e mortificazioni" (A. Griffo). Ed era, appunto, alla filastrocca di inizio mese che ogni buon cauloniese faceva riferimento per una giusta scansione dei vari momenti di tutto quel lasso di tempo. Passato il primo giorno, quello dedicato al Santo che apre la cantilena si andava subito al sei di dicembre, festività di San Nicola vescovo di Mira. Se appare molto dubbia l'esistenza di Sant'Aloi non conosciuto se non dal nostro canto, molto antico risulta il culto del Santo di Mira anche presso tutta la nostra gente. Esso trae origine da quello diffuso fin dall'undicesimo secolo coll'arrivo dei Normanni nella Calabria Citeriore e nella Calabria Ulteriore.

Sia il Prota che A. Oppedisano, col suo saggio "Cronistoria della Diocesi di Gerace", ricordano come il nome del Santo sia legato a quel documento considerato come una delle più antiche testimonianze sulla nostra Castelvetere (Caulonia).

Alcuni studiosi in tempi più vicini a noi hanno messo in forte dubbio la veridicità di tale atto, comunque lo stesso viene già segnalato da padre G. Fiore da Cropani. L'illustre storico nella sua opera "Calabria abitata" (1691) così riporta: "la parrocchia di San Nicolò di Bari, eretta nel luogo superiore della città (Caulonia, ndr), fabbricata l'anno 1089, due anni dopo che fu trasferito il sacro corpo di questo Santo da Mira città della Licia, alla città di Bari, ed il motivo ne fu, per quello traggo da un libro antico scritto a penna dal Dott. Abb. Gio. Girolamo Sergio, Protonot. Apost. ed Arcipr. di quella città,….. Dice dunque questo scrittore che il P. Biatillo……….. Racconta che nell'anno di Cristo 1087, s'imbarcarono dalla città di Bari da 60 persone sopra certe navi, fra' quali vi era un pellegrino, che andava in Terra Santa, la di cui Patria, Nome, e cognome non saperlo; perlochè abbiamo fatto gran diligenza per ritrovarlo; alla perfine abbiamo ritrovato in un manoscritto conservato dentro il Ven. Monastero di Donne Vergini di questa città …………. ma come sia pervenuta detta scrittura in questo Monastero, non abbiamo potuto aver notizia, il contenuto ……..

era………: Un gentil uomo di Castelvetere per nome Aliberto Asciutti, mosso dalla divozione di visitare quei Santi Luoghi di Gerusalemme prima di partirsi da Castelvetere non sapendo quello che gli potea succedere in sì lungo viaggio, ha fatto di sua mano la seguente scrittura, quale dalla lingua greca fatta traslatare alla nostra italiana diceva in questo modo: Io Aliberto Asciutti della città di Castelvetere, volendo per mia divozione, visitare quei Luoghi in Terra Santa, che il Signore con la sua propria Persona santificò ed onorò, considerando la brevità della vita umana, e i pericoli dei viaggi lontani, e navigazioni di mari per questo presente scritto di mia mano fatto, dico e voglio che succedendo l'occasione della mia morte in questo viaggio, in tutti i miei beni mobili, stabili, animali, debitori, ed ogni altra azione che in qualsivoglia modo mi spettasse, siano miei eredi universali e particolari tutti li poveri di Castelvetere pro eguali portioni, acciò preghino Iddio per la mia Salute e dell'anima mia, e che la Maestà di N. S. abbia misericordia e pietà di me, misero peccatore …….. In Castelvetere li 22 Febraro 1087. Aliberto Asciutti di mia propria mano". " Partitosi dunque il sopradetto nobile cittadino Aliberto Asciutti, e giunto in Taranto, si imbarcò con gli altri della città di Bari per Gerusalemme, ove gionto, e visitato quei S. Luoghi con molta devozione e lagrime, e nel ritorno oprato tanto, per aver in mano quel preziosi tesoro del Corpo di S. Nicolò, e trasferitolo in Bari con gli altri Baresi, come racconta il sopracitato P. Biatillo, nel quale ognuno può leggere; se ne ritornò in Castelvetere sua Patria, ove in memoria di tal fatto fu eretta la sopradetta Chiesa in Castelvetere, e forse a spese del medesimo Aliberto, per quello posso supporre per sua devozione e rendimento di grazia."

Della chiesa di San Nicola, oggi, nulla rimane se non la sua memoria storica nel toponimo "largo San Nicolello" nei pressi di piazza Mese e pochissimi blocchi di marmo inseriti nel muro esterno di un'abitazione privata.
La chiesa fu distrutta a causa della sua "vetustà", mentre il suo beneficio passò (sempre quanto riferisce l'Oppedisano) alla chiesa di San Nicola di Campanaro dell'omonimo centro abitato e la sua parrocchia fu aggregata alla parrocchiale di Santa Maria dei Minniti, nella cui chiesa ancora oggi si conserva una statua rappresentante il vescovo di Mira. La scultura è in legno dipinto, poggiante su uno scannulo ottagonale, raffigurante il Santo tutto rinchiuso nel suo ricco piviale e del vescovo porta la mitra in testa. Il Santo tiene il braccio destro alzato con gesto benedicente e dito inanellato con l'anello proprio del suo stato di "pastore"; nella mano sinistra stringe un volume, a ricordo delle sue dotte discussioni contro l'eresia di Ario nel concilio di Nicea. L'Illustre Prelato indossa un lungo camice bianco rifinito alle maniche e nella parte inferiore da un grosso bordo con fiori stilizzati da dove fuoriesce la pantofola dorata, il camicione viene avvitato da largo nastro annodato su cui va a finire una croce pettorale. Il tutto è avvolto dal mantello tenuto chiuso da una grossa "broche". Sotto il sontuoso paludamento s'intravede una stola anch'essa decorata con girali di foglie, motivi che compaiono di nuovo sulla mitra su cui domina il monogramma IHS. La scultura anche se di semplice impostazione non manca di un suo decoro nel viso ieratico chiuso da barba ben curata e da occhi profondi, ricavati da una pasta vitrea. Non sappiamo a quando essa risalga e chi ne sia stato l'autore. Se la scultura, come probabile, dovesse provenire dalla chiesa di San Nicolello, sopra ricordata, la sua datazione apparirebbe piuttosto antica, a prima della fine del XVIII sec. La sua fattura per quanto semplice denota una certa perizia nei panneggi del mantello che avvolge il Santo Vescovo e la fa rientrare in quel tipo di arte devozionale e innocente che ha riempito di sé tante nostre piccole chiese e che nelle scuole ascetiche controriformate trovava i suoi modelli più propri.

L'approssimarsi del giorno di San Nicola nella vita quotidiana delle nostre genti voleva dire, soprattutto, il momento più delicato e più impegnativo di ogni buon capraio:

"I Santu Nicola ogni mandra faci a prova"

Era quello un periodo di attività veramente intensa presso i vari mandrili. Si lavorava per avere le forme di formaggio, da noi meglio conosciute come "pezzuli i casu". Anche per quest'opera ci si serviva di una esperienza più che millenaria e si poneva attenzione a che l'arte appresa dai padri fosse rispettata in ogni suo punto: solo così si era sicuri di ottenere buoni prodotti pronti per essere stagionati. Il lavoro prendeva inizio dalle prime luci dell'alba con la fase della "mungitura". Le pecore e spesso le capre ad una ad una erano obbligate a passare dal "vado", dove l'esperto pecoraio, seduto su rozzo sgabello in legno, "u ccippu", talvolta un blocco di pietra squadrata, spremeva le mammelle dei suoi animali raccogliendo il prezioso liquido in secchi metallici, "catu", o in legno, "rivaci".



Negli ovili meglio organizzati le pecore, tenute nei recinti, ("jazzu" se ricoperto da tegole, "ceramìdi", o "pinnata", se ricoperto da rami e ramoscelli), potevano fuoriuscire attraverso uno sportello tenuto all'uopo chiuso dal ginocchio dello stesso mandriano, che, mentre mungeva un capo, teneva le rimanenti bestie ferme al loro posto.

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U sei i Nicola, l'ottu i Maria... U vinticincu lu bellu Misìa;
ovvero

La grande attesa per il Natale cauloniese.

di Gustavo Cannizzaro
www.caulonia2000.it - Marzo 2002



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