Questa sezione raccoglie scritti, articoli, storie, usi e costumi
della tradizione cauloniese

           

 

 

 

 

 

 

 

 

 





 

Solo gli uomini intervenivano, perché così richiedeva il rito e perché veramente faticose erano quelle prime operazioni. Una volta ultimato tutto ciò si provvedeva ad appendere la vittima al "gambedu" (sorta di gruccia in legno d' "agghjastru", olivo selvatico, e particolarmente resistente a sopportare il peso di circa due quintali di roba), al quale si legava tramite una grossa fune, "u carricaturi".


Sempre gli uomini più abili e più forti badavano a che ogni cosa venisse fatta seguendo un cerimoniale plurisecolare: due fori alle zampe posteriori mettevano a nudo i molto resistenti tendini e attraverso essi il tutto veniva appeso con il capo in giù. Così penzolone, con la testa in basso, si favoriva ulteriormente l'uscita dell'ultimo sangue attraverso il foro già praticato nel "bufularu" (guanciale). Quindi, un taglio preciso e netto dall'alto verso in basso lo spaccava in due facendo fuoriuscire l'intero intestino.


Le interiora venivano raccolte in un'apposita cesta e l'esperta donna spingendosi in avanti con una sua solennità diceva "mo mi sciogghjiu a trama". Ogni padrona di casa sapeva come trattare le budella, che venivano snodate dal groviglio originario e una volta libere e tagliate venivano portate al fiume per essere lavate con sale, limone e soprattutto con acqua corrente. Certamente il lavoro femminile non pigliava inizio con quella delicata operazione, ma nei giorni precedenti ciascuno di esse aveva provveduto a fare il pane, il bucato e si era messa a posto con il sale ed ogni filo per legare.


Se in quell'occasione il pane fosse venuto male, ciò era di cattivo auspicio e con preoccupazione il pensiero era rivolto al capo-famiglia. Il bucato doveva far sì che ogni strofinaccio (hyeri), tovagliolo (sarvettu), grembiule (faddali) e il lenzuolo dell'aria (quest'ultimo ricavato come "tila lasca", dalle fibre di ginestra o dal filo di lino grezzo "stuppa") fossero tutti puliti. Già nelle stagioni precedenti erano state filate diverse fibre col fuso per ricavare ogni sorta di legame, mentre un trattamento speciale si riservava al sale. Esso veniva comprato a pezzi grossi, poteva trattarsi anche di salgemma. Ogni tocco di sale veniva infornato in modo che risultasse sempre più asciutto e quindi triturato e ridotto in polvere sotto apposite macine di pietra. Infine dopo aver fatto una buona scorta di legna o carbone, ogni brava massaia era pronta per la fatica finale. Si rientrava dalla fiumara, quando ormai gli uomini avevano ridotto in menzine il maiale e il tutto veniva portato a casa, dove si sezionava e si selezionava. Si dava inizio alla fase di lavorazione di ogni carne.


Il gruppo femminile tagliuzzava la carne con i coltelli affilati nei giorni precedenti da qualche arrotino di passaggio e poi si distribuivano le giuste dosi di sale, i semi secchi del finocchio selvatico e il pepe rosso dolce e piccante. Dopo l'assaggio ci si occupava dell'insaccatura. Nel frattempo gli uomini mettevano su la caldaia. Quest'ultima completamente vuota veniva riempita con il grasso, destinato a sciogliersi subito, la cotenna per le "frittole", quindi gli zamponi "gambuni", orecchie, facciale, lingua e dopo un po' si aggiungevano le costate e pezzi di carne con l'osso. La caldaia, poggiata su uno strato di cenere veniva riscaldata con brace accesa tutt'intorno. Si faceva attenzione a non provocare fumo o vampa, solo così il tutto poteva cuocere come doveva. Dopo circa sei ore di caldaia si poteva tirare fiato perché "u porcedu era fattu".Ultimata ogni cosa, si invitavano parenti e amici cari per la grande abbuffata di carnevale.


Se giovedì grasso era il giorno ideale per l'uccisione del maiale, il martedì successivo, "marti i lazzata", ultimo giorno di carnevale, sapeva essere il momento giusto per appendere le canne con i vari tipi di salami. Le salsicce rimanevano ad asciugare fino alla cosiddetta domenica di Lazzaro, quindi "vinni Santu Lazzaru e si cogghjiu i sazzizzi", ma bisognava attendere sabato santo, quando a mezzogiorno squillavano le campane della gloria, per poter mettere in bocca un pezzo di quella carne amorevolmente lavorata:
"Groglia sonando, sazzizzu mangiandu".

In Caulonia, come in gran parte dei centri del sud, l'allegra stagione che si riconosceva sotto l'insegna dell'originale battuta " semel in anno licet insanire! " comprendeva un arco di tempo di appena dieci giorni. Tale ricorrenza andava dal decimo giorno a quello precedente il mercoledì delle ceneri. Domenica, inizio del carnevale vedeva "tale giorno…interamente dedicato alle rappresentazioni farsesche (parti). Il primo spettacolo fatto da uno dei tanti gruppi di 'mascherati', molto spesso in antagonismo tra loro, aveva inizio verso le sette - otto del mattino, orario che coincideva con l'uscita della prima messa. Dopo di ché codesti attori, improvvisatisi tali, tra canti, salti e a suon di musica, si spostavano per fermarsi nuovamente in qualche piazza, o crocicchio, ovunque vi fosse un discreto numero di persone disposte ad assistere alle rappresentazioni. Tutto ciò durava ininterrottamente sino a mezzogiorno per poi riprendere alle prime ore del pomeriggio…" (M. Cannizzaro)
 

   



Travestimenti, parrucche di stoppa, rossi pomelli,
neri mustacchi e maiali uccisi;
ovvero
periodo di Carnevale a Caulonia
di Teresa Giamba e Gustavo Cannizzaro
www.caulonia2000.it - maggio 2002


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