Vita intima di un paese della Calabria nei secoli scorsi
di Dott. Ubaldo Franco
 
           

 

 

 

 

 

 

 

 



 
 
     Questo modesto lavoro è dedicato alla inobliabile memoria dell'Amico Avv. ILARIO ASCIUTTI che al valore professionale e alla grande cultura accoppiava la gentilezza del sangue.
     Caulonia, giugno 1949


Premessa

di Ubaldo Franco

     Ho tratto queste note in gran parte dai libri parrocchiali di Caulonia che formano una importante raccolta che va dal 1578 ai giorni nostri, sebbene molto lacunosa per l'incuria degli uomini e per la fatalità degli eventi. Si dice che la Calabria non ha storia perché manca di documenti andati dispersi per la dolorosa ignoranza di un popolo martirizzato e brutalizzato dalla furia periodica dei terremoti e dalle contìnue invasioni straniere; in gran parte è vero, come è vero che i monumenti della sua millenaria civiltà sono scomparsi inghiottiti dall'oblìo del tempo, sì che di tante nobilissime città che furono all'avanguardia del diritto, del pensiero filosofico, della medicina e delle arti, oggi non se ne conosce neppure il sito approssimativo. Ma prima che si perdano del tutto le ultime tracce del passato è indispensabile che venga fatta in tutti i paesi della Calabria un'opera appassionata di ricerca, di classificazione e di cernita in modo da poter tentare, su quel poco che resta, la ricostruzione della nostra storia con un paziente lavoro di raffronto e di ricomposizione così come si costruisce un mosaico con varie pietruzze di differente colore e di provenienza diversa e che, unite assieme, formano un tutto completo ed armonico. La conoscenza della vita quotidiana, direi quasi spicciola, dei nostri paesi della Calabria con i suoi pettegolezzi e le sue passioni, riveste oltre tutto una grande importanza perché essa ci aiuta a comprendere la così detta « questione meridionale », giacché è evidente che un male che affligge un popolo e lo pone in un complesso di inferiorità, deve avere origini lontane che bisogna ricercare nei suoi minuti particolari immediati e con la stessa diligenza che un medico pone nella rì-

— 6 —

cerca anamnestica di un morbo difficile a diagnosticare. La storia ci insegna che i popoli non decadono e tanto meno scompaiono per i soli eventi bellici, chè anzi questi da per sè, possono essere incentivo talvolta di maggiore incremento e vitalità. Esistono evidentemente ragioni molto complesse a determinare la decadenza delle razze, ragioni che considerate una per una si rivelano insufficienti ad infirmarle, ma che trovandosi in concomitanza, ne determinano il fatale tracollo o, nell'ipotesi più favorevole, creano un'inferiorità razziale individuale e collettiva che pesa per secoli come una maledizione di Dio. Fattori gravi di depauperamento sono senza dubbio le avversità climatiche, topografiche e belliche, le morbilità, l'allontanamento delle usuali vie commerciali, ecc..., ma il fattore più importante e decisivo in definitiva è senz'altro il fattore economico perchè dove non ci sono possibilità di vita le popolazioni tendono a diradarsi e ad emigrare verso altri territori dove le condizioni ambientali sono più favorevoli; è questa una legge biologica che vale per tutti gli esseri viventi, dal più pìccolo insetto all'uomo più progredito. Ora, tutti questi fattori che io vorrei chiamare la patologia dei popoli vanno diligentemente studiati e analizzati perché si possa trovare il rimedio.
     Sulla questione meridionale sono stati scritti centinaia di volumi da persone di grande ingegno e di grande cuore; basti ricordare fra tanti Giustino Fortunato e Leopoldo Franchetti, ma nessuno ha toccato il vivo del problema come il nostro grande e indimenticàbile Maestro, il Pro/. Oreste Dito che con la sua fine sensibilità di calabrese eruditissimo ha capito che la questione meridionale era essenzialmente un problema storico e che come tale andava studiato con la ricerca delle cause. «Non basta constatare l’esistenza del male» - ammoniva Egli - «è necessario sopratutto accertarne i precedenti storici per poter stabilire una diagnosi vera. Ciò che non s'è mai fatto; onde i rimedi sono sempre falliti allo scopo o sono inadeguati al male. » (1)
      Oggi che il problema meridionale è ritornato di moda, a


____________________

(1) O. DITO . La storia calabrese e la dimora degli ebrei in Calabria. Rocca S. Casciano, 1916.

— 7 —

quanto sembra più per necessità demagogica che per sincero desiderio di porvi rimedio, sono state ventilate le più assurde proposte dal separatismo all'industrializzazione forzata, proposte che denotano, se non altro, l'assoluta incompetenza sulla questione meridionale e calabrese in ispecie, perchè nessuno si è reso conto, o voluto render conto, che il male della nostra povera terra si chiama fiscalismo, fiscalismo brutale, irragionevole e assurdo che ha le sue lontane origini al tempo della dominazione romana e che continuando ininterrottamente per secoli e secoli, per-dura purtroppo ai nostri giorni.
     Finchè non verranno fortemente differenziati i sistemi tributari tra nord e sud, il Mezzogiorno non potrà mai uscire dal suo letargo. Altro che regionalismo!  Prima di fare esperimenti in corpore vili, giovevoli solo ad una piccola minoranza di sfruttatori, di speculatori e di famelici politicanti in fregola di prebende, bisogna comprendere che la verità è una sola e cioè che il popolo calabrese è un grande ammalato da curare e da rinsanguare.

(Dott. Ubaldo Franco)



Vita intima di un paese della Calabria nei secoli scorsi
di Dott. Ubaldo Franco

 

Culti cauloniesi - Copertina del libro
   

    La storia feudale di Castelvetere, l'odierna Caulonia, comincia poco dopo il 1093 epoca in cui il Conte Ruggero il Normanno concesse in feudo all'Abate Brunone il Bosco della Serra che confina col territorio di Castelvetere (2). Nel diploma di concessione che ne stabilisce i confini, mentre vengono menzionati i limiti dei contadi di Stilo e di Arena, quelli di Castelvetere vengono descritti con i soli punti di riferimento naturali (3) il che ci fa supporre che esso, pur essendo già un centro importante e fortificato, non era ancora costituito in unità territoriale. Ma fu certamente in quell'epoca o poco dopo dato in feudo ad un consanguineo del Conte Ruggero perché nel 1154 già risulta infeudato ad un Malgeri d'Altavilla la cui stirpe, pur tra i torbidi eventi di quell'epoca, si mantenne nel dominio per oltre un secolo: infatti nel 1262 risulta ancora padrone di Castelvetere un certo Roberto Filmangeri la cui discendenza dal capostipite è evidente dal suo patronimico (filius malgeri). Tralascio la serie dei feudatari che si susseguirono fino all'avvento dei Carafa perché l'argomento esorbita dai limiti che mi sono prefissi. Ricordo solo il memorabile

attacco di sorpresa subito da Castelvetere durante la guerra del Vespro da parte di Ruggero di Lauria nel 1284 perché esso dimostra che già in quel tempo era una terra molto ben fortificata e di una certa importanza, una volta che Carlo d'Angiò si preoccupava di tenervi un forte presidio (4).

____________________

     (2) FRANCHI - Difesa degli antichi diplomi normannici etc.. . Napoli, 1752, pag. 33 et passim.
     (3) « ...inde vadit per Serrani eiusdem montis usque ad malareposta, scilicet ad superiorem collem montis et inde per magnam cavam, quae versa est ad occidentem, usque ad pedem montis descendit, qua aqua decurrit et inde transit duos ruseletos ac vallonem indirecto usque ad jJugum
montis quod est apud occidentem, sicut praedicta cava respicit; ed inde per Jugum eiusdem montis Bràndismenon... ».
     (4) AMARI - Guerra del Vespro, Gap. XI.

— 10 —

    Dopo espletata la guerra civile che ne seguì alla congiura dei Baroni, Ferdinando d'Aragona spogliò del feudo di Castelvetere il marchese Antonio Centelles che aveva preso le parti dei ribelli e lo regalò nel 1479 a lacopo Carafa, suo uomo d'armi, che si era reso benemerito durante la guerra e segnalato alla presa di Istonio (5). Il dominio dei Carafa che durò ininterrottamente per circa tre secoli fu elargito con la più ampia formula feudale sul territorio e, quel che più conta, sui suoi abitanti,«cum potestate erigendi quandocumque voluerit furcas medias, furcas castellas, perticas et alia meri mixtique imperi et jurisditionis sìgna et executionem justitiae denotanda et facinorosos suspendere adeo quod naturaliter moriantur, seu eosdem ultimo supplicio condemnando et relegando atque eiusdem manus, nares, aures, lin-guas et alia corporis membra mutilando, fustigando, capiendo, carcerando, torquendo, bandiendo et condemnando atque eos absolvendo carceresque tenendo... ». Venivano solo riservati alla giustizia reale i delitti « lesae majestatis, heresiae, nummorum codendi » (6). Premesso quanto sopra, non è difficile immaginare quali fossero le condizioni della sventurata cittadinanza di Castelvetere la quale, passata probabilmente da un regime feudale piuttosto blando per le incertezze politiche dei tempi immediatamente precedenti, ad un regime ferreo e spietato esercitato da un feudatario che aveva fretta di arricchirsi, si vide perduta. Pochi anni dopo infatti la disgraziata Università di Castelvetere si rivolgeva alla maestà del Re lamentandosi che «per essere pervenuta in mano de baroni, so stati disfacti e reducti ad extrema povertà » e implorava la grazia di essere presa nel regio demanio e di essere liberata dalla tirannide esercitata da lacopo Carafa e dai suoi successori che « violentemente, nullo juris ordine servato » avevano fatto e continuavano a fare man bassa dei beni dei cittadini. Faceva presente inoltre che « attento le

_____________________

     (5) FONTANO –De bello neapolitano, Lib. V.
     (6) Decretò di conferma dell'investitura a lacopo Carafa da parte di Ferdinando d'Aragona, 9 ott. 1496 nel Quadernione 47 del Grande Archivio di Napoli e riportato da PROTA: Ricerche storiche su Caulonia, pag. 268

— 11 —

crudelite grandissime, arrobamenti et sassinamenti facti per li dicti quondam jacobo carafa, soi figlioli et madamma joannella soa nora, fo denecessario multi citatini absentarnose de dicta terra in modo che li restanti non hanno potuto supplire ad pagare li pagamenti fiscali... » (7). Questo grave documento sfata la leggenda che il dominio dei Carafa fosse un regime paternalistico come inclinerebbe a credere qualcuno. Del resto la tendenza agli « arrobamenti » sembra che in quel tempo fosse un'abitudine di famiglia : nell'aprile del 1494 l'Università di Reggio inviò una querela ad Alfonso II contro un certo Bertoldo Carafa signore di Fiumara di Muro, il quale si era appropriato di molte possessioni dei reggini « et praesertim » dell'Abazia di Santi Quaranta e di altre chiese ancora. Riferiva che fino a quando il Re risiedette a Reggio egli «conoscendo havere mala causa, per suo procuratore legitimo cedìo et renunciò liti et istantie, dicendo che ogni uno pigliasse la robba sua et che esso non havea causa di litigare », ma non appena il Re si fu allonato, ritornò ad usupare le terre che poco prima aveva restituito per paura (8).
    La povera Università di Castelvetere dunque, pressata dalla rapacità dei suoi marchesi e le gravezze del fisco regio che imponeva Collette per ogni piccolo pretesto ed aumentava di anno in anno i contributi, si dibatteva in gravi difficoltà economiche ed era costretta a contrarre in continuazione dei debiti con dei privati (9) ed era inoltre permanentemente indebitata con il proprio esattore delle tasse il quale anticipava le somme che doveva riscuotere durante l'anno e si beccava per questo un interesse di 150 ducati (io). Non deve meravigliare quindi se molti citta-

_____________________

     (7) DITO - Op, cit., pag. 254.
     (8) SPANO' BOLANI v Storia di Reggio Calabria, Lìb. V in nota.
     (9) Nel testaménto di un gentiluomo di Grotteria, Don Giuseppe D'Aragona D'Ajerbis, redatto nel 1781, fra le altre disposizioni testamentarie si legge: << Item, dichiara di aver da conseguire dalla Università di Castelvetere ducati cento e grana cinque in danari e quaranta libre di seta per altrettante prestate, quale vuole che la sua Moglie ed Erède mandi a pigliarli per disponerli a quelli secondo hanno parlato a bocca.. ».
In LUPIS CRISAFI: Cronaca di Grotteria, pag. 168.
     (10) Stato discusso dell'Università di Castelvetere del 1742.

— 12 —

dini, quando venivano a morte non erano in condizione di lasciare nemmeno i rituali « carolenos duos pro malis oblatis » i due carlini per l'assoluzione, e che venissero seppelliti, secondo l'annotazione dei parroci, « gratis et prò amore dei » per la loro estrema indigenza che qualche volta li costringeva a chiedere la elemosina di porta in porta ( 11 ). Per sfuggire al fisco molti cittadini abbienti erano costretti a legare i loro beni in patronato laicale a qualche chiesa e costituire i cosìdetti benefici che erano esenti dalle tasse come tutti i beni ecclesiastici ed erano trasmissibili ai loro eredi: i proprietari pagavano al cappellano le messe stabilite nel beneficio, o l'importo di esse e godevano indisturbati la proprietà (12).
     La Corte Marchesale, fino a quando i Carafa vissero a Castelvetere, e cioè fino alla metà del '600, aveva un tenore di vita fastoso quale del resto si conveniva ad una famiglia potente e di grandi aderenze. Scipione Ammirato dice (13) che l'imperatore Carlo V reduce dalla guerra di Tunisi nel 1535 e costretto "per fortuna di mare " a sbarcare in Calabria, passò anche da Castelvetere ospite di Giovanbattista Carafa e ciò sembra confermato dal fatto che la porta meridionale della città veniva comunemente chiamata Porta Reale, nome che le dovette essere conferito in ricordo di quella circostanza. Lo stesso Ammirato ci riferisce che il suddetto Carafa, dopo tanti onori, finì col rimetterci il capo per le innumerevoli angherie che commetteva contro l'onore, i beni e la vita dei suoi vassalli. Sostenne inoltre una clamorosa lotta col Priore della Certosa di S. Stefano del Bosco a cui aveva usurpato alcuni territori che poi nel 1529 fu costretto a restituire (14).
     Dopo l'investitura dei Carafa vi fu verosimilmente una revisione di tutte le concessioni sub-feudali da parte del nuovo padrone: qualcuno dei vecchi baroni, non compromesso con

_____________________

     (11) LIB. MORT. S. M. AR. 1739, 2 genn. « ...erat adeo pauper ut elemosinam ostiatim quaerere sit coactus.. ». '
     (12) OPPEDISANO - Cronistoria della Diocesi di Gerace, pag. 145. ...
      (13) AMMIRATO - Famiglie nobili del Regno di Napoli, voc. Carafa.
      (14) LUPIS CRÌSAFI - Op. cit., pag. 127. L'istrumento notarile fu redatto dal notaio Virgilio de Bulvizio in Napoli.

— 13 —

Centelles, sì mantenne e riottenne la conferma dei beni; altri ne furono spogliati. Scompaiono così alcuni nomi di vecchie famiglie patrizie di Castelvetere come i Papillione, gli Astrameni, i Racho, ecc..., mentre ne furono confermate i De Fonte, i Presterà, écc... Una famìglia molto potente che visse iri Castelvetere per un secolo circa fu quella del Barone Siscara: venuta al"seguito dei Carafa, apparteneva ad un ramo cadetto dei Conti Siscara di cui un membro fu viceré di Alfonso d'Aragona in Cosenza durante la congiura dei Baroni ed un altro, Paolo Siscara, è ricordato perché nel 1486 riuscì molto audacemente ad appiccare il fuòco ad una fusta carica di nemici dinanzi a Belvedere per la quale impresa si ebbe un indennizzo di 53 ducati (15). Questo casato possedeva il vasto feudo di Ajello ed il ramo di Castelvetere si spense Con Don Francesco Siscara, barone di Tarzia, il quale ebbe una figlia Lucrezia (16): il feudo ed il titolo andarono per matrimonio alla famiglia Di Capua che li alienò assieme al palazzo alla famiglia Asciutti-Crea nel 1691 per la somma di 4.000 ducati (17). Un'altra famiglia baronale era quella dei Musco che ereditò il titolo ed il feudo dalla famiglia Calderon : 'non mi è riuscito di rintracciare notizie più dettagliate sull'origine di questa famiglia che è stata fin quasi ai giorni nostri tra le più cospicue e continua ancora la sua tradizione di magnificenza in un paese vicino, nè è dato sapere se la famiglia era originaria di Castelvetere o venne a stabilirvisi dopo aver contratto rapporti di parentela con i Calderon. Inclino a propendere per la prima ipotesi, perché il primo Musco che incontriamo è il Magnifico Aquilio Musco, Dottore in legge, che tenne a battesimo nel 1582 quella Lucrezia Siscara sopra ricordata. Un Barone Orazio Musco era nel 1722 in Fabrizia, casale di Castelvetere, « cum ufficio pro ducis» cioè governava la terra per

_____________________

     (15) DITO - Op. cit., pag. 151. -.
     (16) LIB. BAPT. S.M.M., f. 12. Fu battezzata il 4 marzo 1582 per mano dell'Abate Orazio Dattilo, vicario del Vescovo Bonardo, venuto appositamente da Gerace.
     (17) II palazzo è stato recentemente venduto, ma la lapide che ricorda l'acquisto è conservata dall’ultimo discendente della famiglia residente in Reggio.

— 14 —

conto dei Carafa e lì gli nacque quel figlio Ilario Antonio, battezzato però in Castelvetere « de licentia curati Ecclesiae dictae Fabritiae » (18), che doveva essere trentadue anni dopo lo sfortunato protagonista, assieme al fratello Domenico Antonio, di una fosca tragedia feudale.
     É da ricordare la famiglia dei Baroni Strati che ebbe un periodo di splendore ai primi del '700 e si estinse verso la fine del secolo falcidiata da un'implacabile mortalità.
Queste famiglie, con qualche altra in via di dissoluzione economica di cui sì è quasi spento il ricordo, formavano il cosidetto patriziato ex sanguìne.
     Ma Intanto si stava verificando fin dalla metà del '500 un fenomeno maraviglioso che onora Castelvetere e la Calabria in genere, cioè si andava lentamente formando un vero e proprio patriziato intellettuale e professionale che si inseriva dolcemente e insensibilmente nella Vita cittadina come elemento dominante e, stringendo vincoli di parentela con le vecchie famiglie nobili, le rinnovava creando una nuova classe dirigente moderata, comprensiva e umanitaria. La professione di medico, di notaio, di dottore in legge << dava agevolezza —- dice Spanò Bolani (19) —- di nobiltà personale che li faceva abili al Sindacato dei nobili ». Ecco la grande importanza pratica del titolo professionale: poter accedere alla carica di Sindaco dei nobili. (che era la dignità più importante) e poter rappresentare e difendere con indipendenza e con fermezza l'Università di fronte ai feudatari e al fisco regio, carica che sino alla seconda metà del '500, in virtù della prammatica vigente nel Regno di Napoli fin dal 1473, era monopolio di nobilucci ignoranti ed altezzosi che si preoccupavano solo di tenersi buono il feudatario da cui dipendeva la loro esistenza. Già nel 1593 il medico Giovan Pietro Sergio « excellens medicinae doctor » teneva al fonte battesimale un figlio del marchese Don Fabriziò Carafa (20) e in questo scorcio di secolo e al principio del '600 troviamo una fioritura di professionisti

_____________________

     (18) LIB. BAPT. S. ZACH. Vol. 3°, f. 36.
     (19) SPANO' BOLANI - Op. cit. Lib. VÌI, cap. 2.
     (20) LIB. BAPT. S.M.M. f. 42.

— 15 —

valorosi che si imponevano col prestigio della loro cultura e del loro magistero: ricordo i medici Donato Antonio Sergio, Onorato Sergio, Marcelle Gugliardo e Giovan Gerolamo Aiossa; i dottori in legge Menelao Minici (21), Giovan Vincenzo Fonte e Giuseppe Oppedisano; i notai Giovan Francesco Manetta e Giulio Protopapa ecc.. Di tanti altri non abbiamo notizia perché di quell'epoca esistono solo i libri di battesimo delle Parrocchie di S, Maria dei Minniti e di S. Zaccherìa, ma dovevano essere molto numerosi, specialmente i dottori in legge e i notai, perché Ca-stelvetere, come capitale del territorio, era sede della Corte di 1° e 2° istanza. Questa classe di intellettuali, dunque, che portava il titolo di magnifico, titolo che veniva dato solo ai nobili ex sanguine, costituì la nobiltà ex privilegio, cioè per dignità professionale e rapidamente diede la scalata a brillantissime situazioni economiche e alle cariche direttive, sostituendosi completamente alla vecchia nobiltà esaurita economicamente e numericamente i cui ultimi discendenti finirono col confondersi con la massa amorfa della plebe da cui non riuscirono più a distinguersi. Da Un attento esame dei libri parrocchiali di Santa Maria dei Minniti e di San Zaccheria, che sono come si è già detto i più antichi e i più importanti, assistiamo con vera emozione a questa lotta per eccellere da parte del ceto popolare : vediamo qualche famiglia che ha già qualche membro arrivato all'arringo professionale ed ecclesiastico ed altri che hanno notevolmente migliorata la loro situazione perché esercitano un mestiere per cui godono il titolo di magister e sono tenuti in una certa considerazione : infatti i loro figliuoli sono tenuti a battesimo da nobili e professionisti anziché da popolani o dalle solite levatrici (22). Ma nel secolo successivo li vediamo tutti trionfalmente

_____________________

     (21) Menelao Minici era dottore in legge e non già medico, come riferisce P. Fiore e, sulla sua autorità, il Prota. Ciò isulta inequivocabilmente da un atto di battesimo dell'8 febbraio 1580 in cui il « Magnificus Menelaus Minici U.I.D. > (leggi Utroque Iure Doctor) tenne a battesimo un figlio del magnifico Giovan Carlo Nageo (LlB- BAPT. S.M.M. f. 7).
     (22) Anche dì queste oscure benemerite del sec. XVI voglio ricordarne qualcuna: Marchia Catalano da Gerace che veniva chiamata

— 16 —

inseriti nella casta nobiliare. Altre famiglie invece, non favorite dalla sorte o per avversità contingenti che oggi non siamo in grado di valutare, dopo un tentativo di una generazione rientrano nei ranghi da dove erano partite: un debito, una lite, una morte prematura, chissà !, ne hanno forse tarpato le ali e sbarrata la via del successo.

* * *

     Sul finire dtl sec. XVII Castelvetere con una popolazione di circa 6.000 abitanti (notevolissima per quel tempo in cui Reggio non arrivava ai diecimila (23)) aveva quattro medici che venivano stipendiati dall'Università con 100 ducati annui complessivi, otto dottori in legge, quattro notai e tre giudici. Vi erano inoltre due farmacie gestite da periti speziali (24). A questi bisogna aggiungere una vera pleiade di religiosi di ogni ordine e grado (25) che popolavano le numerose chiese (ve ne erano una quarantina!) i tre o quattro conventi ed i numerosi eremi ed oratori disseminati nel territorio. Questi religiosi non sempre erano all'altezza del loro compito, ma risentivano purtroppo della debolezza dei tempi. Nella storia dei vescovi di Gerace del Vescovo Pasqua che dalle origini va, con le aggiunte del canonico Parlà, al 1750 e negli stessi atti del Sinodo tenuto
ai parti della Marchesa Carafa, Camilla Stripponì Caterina Infuso, Grazia Zangara ecc.. Esse erano qualificate obstetrices probatae forse perchè in possesso di qualche autorizzazione ufficiale ad esercitare la professione.

_____________________

ai parti della Marchesa Carafa, Camilla Stripponi, Caterina Infuso, Grazia Zangare, ecc.. Esse erano qualificate obstetrices probotae forse perchè in possesso di qualche autorizzazione ufficiale per esercitare la professione.
     (23) SPANO’ BOLANI - Op. cit., Vol. II, pag. 96. Nel 1746 la popola-
zione di Reggio per effetto della peste si ridusse appena a cinquemila!
     (24) GALLERANI e GALLUCCIO - Apprezzo di Caetelvetere, cit. da Prota pp. 92 e Stato discusso dell'Università di Castelvetere del 1749.
     (25) Ai primi del '700 i religiosi del Regno di Napoli erano 120.000 sui quattro milioni di abitanti. Il Colletta dice che vi era una proporzione del 28 per mille! I beni ecclesiastici, escluso il Demanio regio, raggiungevano i due terzi della proprietà fondiaria. V. COLLETTA - StoriadelReame di Napoli, Lib. I, cap.XVII e OMODEO - L'età del Risorgimento Italiano, pag. 53.

— 17 —

a Gerace nel novembre del 1754 dal vescovo Rossi (26) troviamo molti episodi che lumeggiano le tristi condizioni del clero di quel tempo. E' ben vero che la Diocesi di Gerace ebbe oltre un secolo di crisi dei suoi pastori : quattro vescovi deposti ed altri ripetutamente sottoposti a severissime inchieste. Già intorno al '600 il vescovo Grazio Matteo che si era permesso di indire un sinodo, si vide costretto a interromperlo « per una violenta contesa sollevata da alcuni depravati ecclesiàstici » (27); e lo stesso capitò al vescovo Vicentini che nel 1651 aveva indetto coraggiosamente un nuovo sinodo : i convenuti si azzuffarono si che, dice egli stesso negli atti del sinodo, «ut prope ad arma res vergere visa fit >>. Ed il vescovo Stefano Sculco che pontificò dal 1671 fu deposto dopo qualche anno « quod puellae deo sacrae vitium intulisset »! E non parliamo poi del vescovo Diez che nel 1690, poco dopo aver preso possesso della cattedra, fece uccidere nella chiesa di S. Giacomo un gentiluomo che gli dava fastidio, un certo D. Francesco Ramirez e due dei suoi domestici... Erano i tempi, ripeto. Durante l'episcopato di Del Tufo, che poi fu deposto anche lui, i sacerdoti di Castelvetere lo accusarono alle autorità superiori perché aveva dato facoltà ai barricelli laici, e non agli ecclesiastici, di poterli arrestare quando suonate le due ore di notte, venivano sorpresi senza giustificato motivo per i vicoli della città. Non erano del tutto rari i sacerdoti che venivano uccisi per vendetta privata (28) ed il malcostume dei preti doveva ancora trascinarsi nei secoli successivi, se nel giro di dieci anni, dal 1816 al 1826, trovò ancora due sacerdoti uccisi nella propria casa.
     Del resto l'autorità degli ecclesiastici era grandissima, anzi si può dire che dominava la vita cittadina. Veniva inesorabilmente negata la sepoltura ecclesiastica a coloro che morivano senza aver assunto i Sacramenti o almeno non avessero fatto

_____________________

     (26) Rossi - Constitutiones et Acta synodi hyeracensis etc.., 1755,
passim.
     (27) OPPEDISANO . Op. cit., pag. 537 et passim.
     (28) LIB. MORT. S. ZACH. Voi. II, f. 3, anno 1736

— 18 —

l'ultimo precetto pasquale (29) e i loro cadaveri venivano senza tante cerimonie buttati in una fossa anonima extra moenia (30). In caso di morte repentina e sospetta., ti si aspetterebbe logicamente che l'inchiesta venisse espletata dalle autorità criminali: invece no. Un pover'uomo di S. Sostene che si trovava a Castelvetere per affari, muore improvvisamente « vi morbi corruptus » e siccome « ex eius aspectu apparebat peregrinus » (aveva insomma un muso da forestiero, come direbbe Plauto) si forma subito una commissione costituita dal vicario foraneo, dal vice-arciprete, da un chierico «aliisque secolaribus », la quale visita il cadavere, lo perquisisce, lo spoglia, constata che non ha altro addosso che poche carte di nessuna importanza e che per ogni buon fine vengono conservate dal vicario, lo riveste, si accerta con domande ai presenti che è morto di morte naturale e finalmente ordina che venga data sepoltura ecclesiastica (31). Un contadino di Bruzzano, colono di un signore di Castelvetere, viene ucciso in una casa di campagna « et quoniam erat publicus latro et per biennium Paschale Praeceptum non impleverat » viene seppellito « extra moenia » nelle rovine di una vecchia chiesa (32). E di questi esempi se ne potrebbero citare a diecine. Questa intransigenza severa fu una delle tante cause che contribuirono alla deposizione del vescovo Del Tufo perché crearono gravi risentimenti in intiere famiglie e in larghi strati della

____________________

     (29) LIB. MORT. S. ZACH. Vol. I, f. 5. Riporto la risposta di un, vescovo alla richiesta di autorizzazione per un seppellimento: « Molto Rev.come Frat.lo, Se mai non si opponesse altra difficoltà a privare il trapassato Placido Niutta dell'ecclesiastica sepoltura, basta la sola trascuraggine a non adempire il precetto ancorché sia egli stato libero della censura; che però resti egli privo della medesima anch’a titolo di farne passar l'esempio ad altri animi perversi nè quali m'è convenuto c° som° mio
cordoglio sperimentare una consimile pervicace durezza senza haver altra cosa di positivo che l'esecuzione dell'ecclesiastici precetti che per abuso è la cosa che reca maggiore ammirazione. Gerace 30 Xcembre 1736. Aff.mo come Frat.lo D. Idelfonso Del Tufo, vescovo di Gerace ».
     (30) LIB. MORT. S. MICH. ARC. 28 marzo 1744, f, 12.
     (31) LIB. MORT. S. MICH. ARC. 14 marzo 1763, f. 36-37.
     (32) LIB. MORT. S. MICH. ARC. 6 nov. 1764 f. 39.

— 19 —

popolazione e quindi reclami e diffamazioni all'indirizzo del povero presule.
     Però non si creda che la severità venisse esplicata solo in fatto di sepolture. Un gentiluomo di Cosenza aveva tolto in moglie una gentildonna di Castelvetere e, forse per evitare le lungaggini burocratiche o per la fretta di sposare, aveva trascurato di esibire gualche documento di rito riguardante il suo stato libero. Apriti cielo! Gli sposi vengono censurati e minacciati di scomunica, dichiarato nullo il matrimonio per clandestinità e costretti « humiliatione per eos peracta et absolutione impetrata » a ripetere la cerimonia (33). Nel 1795, mentre un sacerdote ufficiava nella Parrocchia di San Biagio, il nobile Don Vincenzo Cricelli, forse per tagliar corto alle ostilità della famiglia, si presenta all'altare con una ragazza del popolo, una certa Clara Lupo e con alquanti testimoni dichiarando che voleva passare a matrimonio, « et me contradicente — annota il povero emulo di Don Abbondio — matrimonium contraxerunt ». Anche in questo caso la Curia scagliò i suoi fulmini dichiarando non valido il matrimonio « causa criminis » e solo per le potenti relazioni della famiglia che evidentemente accettò per buono un fatto compiuto e per i validi argomenti giuridici di un parente dello sposo, Don Francesco Antonio Cricelli, valentissimo avvocato, fu vìnta la partita senza le solite umiliazioni (34). E questi sono esempi presi a caso qua e là senza aver la pretesa di fare un elenco completo.
     Questa turba di sacerdoti, in gran parte turbolenti, pettegoli e maldicenti (35) viveva organizzata in comunità legalmente

_____________________

     (33) LIB. MATR. S. ZACH. f. 20. Vedi anche decreto annesso della Curia di Gerace ed allegato all'atto di matrimonio tra il Magnifico Francesco Salerno e la Magnifica Teresa Lucano, il 12 febbraio 1751. :
     (34) LIBR. MATR. S. ZACH. Anno 1795, f. 66. Vedi il decreto della Curia allegato allo stesso libro tra i ff. 64 e 65 che dichiara valido il matrimonio.
     (35) LIBRO dei Capitoli del Rev. Clero della città di Caetelvetere, f. 22. Verbale capitolare d«l 21 nov. 1756: 11 sacerdote D. Antonio Sergio a voto unanime non viene ammesso nella comunità del clero perché ignorante, maldicente, fastidioso, discolo, ecc..

— 20 —

ed ecclesiasticamente riconosciuta (36) con i proventi dei benefici di cui abbiamo parlato sopra, impartendo lezioni private e industriandosi alla meglio. Non era un mestiere grasso(37), ma si viveva e sopratutto sì viveva senza soverchia fatica. Ciò non pertanto eccellevano dei religiosi per la dottrina, per la fede, e
per la vita esemplare: sono ricordati dal Padre Fiore al quale rimando il lettore. Un centro di cultura doveva essere il convento dei Cappuccini nel quale esisteva una discreta biblioteca con molti preziosi manoscritti (38) e nel quale vissero monaci di una certa notorietà.
     Tra i religiosi appassionati al loro ministero è indispensabile ricordare il Parroco di Sari Zaccheria Pasquale Lamanna, morto settantenne nel 1798 il quale aveva la curiosa abitudine di annotare alla fine del suo libro dei battesimi tutti gli avvenimenti di rilievo che passavano sotto la sua osservazione e che colpivano la sua fantasia. Egli ci ha lasciato una descrizione dettagliata e meticolosa del terremoto del 1783 e di tutte le scosse sismiche che ininterrottamente si sono susseguite sino al 1787; notava tutti gli avvenimenti della sua chiesa e le lotte sostenute per rialzare le macerie di essa e ricostruirla sulle stesse rovine contro il parere dei signori che avevano i loro palazzi vicini alla chiesa e ne volevano fare una piazzetta. Riporta per intero il proclama del 1784 per la costituzione della Cassa Sacra, espediente escogitato per sovvenire i paesi terremotati, ma là dove è detto che «li frati se ne dovessero andare (dai conventi) sintanto che si riedificheranno», egli da uomo che conosceva come si suoi dire i suoi polli, annota in margine: « ma non si edificheranno mai » come infatti avvenne. Riporta una relazione (per come egli aveva potuto apprendere confinato nell'ultima Tule del regno) del viaggio di papa Pio VI a Vienna dove si diceva si fosse recato

_____________________

     (36) Libro dei Capitoli ecc.., f. I.
     (37) Rossi - Op. cit., pag. 92 e segg.. Nel sinodo già ricordato vengono impartite disposizioni perchè i sacerdoti vestano decentemente, che la veste « non sit cordida, vilis, lacera;., nonnisi nigri sit coloris » ed il cappello « non curiosae formae, sed communiores, cordula tiam si serica, nigra tamen circumcinctus.. ».
     (38) SPANO' BOLANI - Op. cit. pag. 183.

— 21 —

 

Pagina Successiva >>

     

Copyright © 2000 Caulonia 2000 per continuare a cambiare - Tutti i diritti riservati